23 Aprile 2016, Comments: Commenti disabilitati su Claudio Costa

Cresciuto in Liguria, a Chiavari, nel 1960 si trasferisce a Milano dove studia architettura al Politecnico. A Parigi nel 1964, grazie ad una borsa di studio vinta con i suoi lavori calcografici, conosce Marcel Duchamp. Nel 1969 ottiene la prima personale alla galleria La Bertesca di Genova. I viaggi compiuti negli anni settanta (Nuova Zelanda, Africa) indirizzano il suo lavoro verso le culture primitive, in un parallelo volgersi alla propria infanzia e all’infanzia del mondo. Nel 1975, in linea con l’apertura verso la cultura materiale che si verifica in Italia a metà degli anni settanta, organizza con Aurelio Caminati il Museo di antropologia attiva di Monteghirfo (Favale di Malvaro), un’abitazione tradizionale dove recupera, cataloga utilizzando il linguaggio del luogo ed espone gli oggetti a essa appartenuti svolgendo un lavoro, idealmente vicino a quello di Christian Boltanski, di ricostruzione della memoria individuale e collettiva, una ricontestualizzazione opposta alla decontestualizzazione duchampiana. Dopo una serie di esposizioni in Germania è presente a Documenta 6 di Kassel. Negli anni ottanta, in un percorso di allontanamento dalla psicanalisi tradizionale e dallo strutturalismo, torna alla pittura (sono gli anni della Transavanguardia), al primitivismo e allo sciamanesimo di Beuys; è un recupero della manualità e del vissuto, in opposizione a quella dimensione fredda teorizzata da McLuhan e, di nuovo, alla preminenza del concettuale. È in questo senso che si pone quel work in regress (locuzione ripresa dal work in progress joyciano), teorizzato dal 1976, che caratterizza il lavoro di Costa: un ritorno al mito, al simbolico, al sé, anche attraverso le autocitazioni, un ritorno che, in senso pienamente postmoderno, poco ha a che fare con le ricostruzioni operate dalla storia. Nel 1986 espone alla Biennale di Venezia l’opera intitolata Diva bottiglia (per un Museo dell’Alchimia) nella sezione “Arte e Alchimia” curata da Arturo Schwarz.